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Sorie Columbus - laboratorio di Altamira Teatro e Pierangelo Pompa


L’intervista nasce dall’incontro con Pierangelo Pompa e il Laboratorio di Altamira Teatro durante il seminario e le prove aperte del loro spettacolo La Clinica degli Accecati, svolti presso l’Aula Columbus dell’ Università Roma Tre, dal 3 al 7 marzo 2014. Due studentesse, Maria Chiara Comunale e Daniela Di Stefano, dopo aver preso parte al seminario sul training condotto da Pompa e assistito alle prove dello spettacolo, lo hanno intervistato ad Ostia (Rm) prima dell’inizio di un suo laboratorio. Pierangelo, attraverso l’intervista, ricostruisce il percorso che lo ha portato a far teatro, partendo dalle origini e dalla sua formazione teorico-pratica, giungendo poi alla situazione attuale che lo vede impegnato nel ruolo di regista. Spiega come inevitabilmente vita e teatro siano strettamente connessi, dona racconti biografici e aneddoti utili alla comprensione del suo cammino e alla sua visione di teatro, riservando particolare attenzione a luoghi e persone che hanno lasciato un segno nel suo vissuto.

a cura di Ilaria Fantozzi, Manuel D'Aleo, Sara Marzocchi

 


ORIGINI


Un padre poeta
Quello di cui mi piacerebbe parlare, e che se ho capito bene vi interessa sapere, è come uno è arrivato a far teatro, che storia ce lo ha portato, quali coincidenze, quali percorsi personali, al di là delle teorie e delle ideologie teatrali.
È interessante, perché nel farmi questa domanda mi obbligate a ricostruire, a riflettere. Chi fa teatro non è che ce l’ha ben chiaro come ci è arrivato, lo ricostruisce raccontandolo, quindi mi fa piacere avere quest’occasione perché è un modo per raccontarlo a me stesso innanzitutto.
Fin da ragazzino mi emozionavo tantissimo, mi piacevano tanto le situazioni organizzate… Mi ricordo mio padre: è un poeta, si chiama Nicolino Pompa, un poeta che non ha mai pubblicato, ma ha scritto tantissimo… E’ sardo ma ha vissuto a Roma fin dagli anni Cinquanta con la famiglia. Aveva aperto, negli anni Ottanta, quando io ero bambino, una “Associazione di Cultura Poetica” intitolata a Piero Ciampi, un cantautore livornese abbastanza noto che è morto poi alla fine degli anni Settanta. Erano carissimi amici.
L’associazione funzionava così: mio padre aveva affittato un monolocale dietro Piazza Navona - negli anni Settanta-Ottanta il centro di Roma era ancora un luogo di cultura popolare, e c’era un sottobosco di artisti, poeti, di vite di tutti i colori, piene di luce e sofferenza, gente di strada che scriveva sui muri, pittori che facevano le Madonne sui marciapiedi, perché la Madonna la vedevano davvero… E mio padre aveva aperto quest’associazione di cultura poetica dove si beveva vino e si dicevano poesie; si ritrovavano tanti suoi amici, poeti più o meno bravi, più o meno affermati, e leggevano le loro poesie…
Era gente che si riuniva una volta a settimana, gente di ogni tipo, da poeti affermati a barboni visionari, però il centro di questi incontri era la poesia. Mi ricordo che mio padre metteva dei divani intorno alla stanza, ed io
ero bambino, stavo lì, e c’erano tutti questi adulti, qualcuno ubriaco, qualcuno più elegante, gente che la poesia riusciva a tenere insieme; si sedevano attorno a questi divani e a turno dicevano le poesie. Io stavo nascosto dietro un frigorifero, dal quale scaturivano bottiglie su bottiglie, e ascoltavo e spiavo questa situazione. Ricordo che per me era molto bello questo rituale poetico, dove a turno uno si alzava a parlare e gli altri ascoltavano - in realtà era una situazione teatrale, qualcuno teatralizzava un po’ di più, recitava, qualcuno la diceva tra sé e sé… La parola prendeva una forza straordinaria, era molto bello.


Il primo teatro in collegio
Poi sono andato in convitto, ci ho vissuto dodici anni. I collegi sono posti estremamente teatrali, perché tu vivi là dentro e vedi un mondo, dei microcosmi, come i ministeri. La gente sviluppa attitudini quasi stereotipate: sono come maschere, personaggi - e mi ricordo che io organizzavo proprio delle sessioni di imitazioni, ero l’imitatore ufficiale…
Poi al liceo abbiamo iniziato a far teatro. A me piaceva tantissimo recitare; mi piaceva fare il teatro tradizionale, imparare i testi a memoria…
La prima vera esperienza che mi avvicinò al teatro fatto un po’ più seriamente arrivò con il professor Piero Fiore, a cui voglio molto bene e al quale sono molto grato. Era un professore di Storia dell’Arte che propose a noi che vivevamo in collegio di fare teatro. Fu un’avventura di tre-quattro anni bellissima, c’eravamo chiamati “Compagnia del Teatro Instabile - La Squadra”.
Svuotammo la camerata domenicale che stava al terzo piano, dove c’erano vecchie reti, materassi... la svuotammo, chiamammo il bidello ad aprire senza permesso (in realtà contro la volontà del Preside) una porta nel muro maestro - me li ricordo perfettamente con gli scalpelli… era proprio una cosa criminale, contro ogni regola, ma noi abbiamo messo su un teatro con i tubi innocenti, abbiamo imparato ad avvitare i bulloni, e a quindici anni è un’esperienza… il sipario, trovare le tende, abbiamo proprio costruito un teatrino con tutti i crismi.
Per essere una cosa scolastica era molto impegnativa: tutti i costumi, le cose da cercare, e poi provare, i ritmi, le musiche. Questo professore era un artista, quindi era sì un teatro scolastico, però devo dire che già toccavamo con mano la complessità del vero far teatro. Facevamo tre o quattro spettacoli a fine anno per tutta la scuola: un giorno per le elementari, uno per le medie, poi per il liceo e infine per i genitori.


Primi spettacoli e primi insegnamenti
Al primo anno facemmo La morte della pizia di Dürrenmatt: io facevo Tiresia, il cieco, e ricordo perfettamente come andò. Questo è un episodio importante, per capire che cos’è il teatro. Io ero in crisi adolescenziale, odiavo la scuola, avevo scritto in un tema: “Vaffanculo la scuola!”, questi temi erano tipo il giovane Werther... “Questa scuola che ci insegna cose che non ci servono a niente, non ci fa esprimere le nostre emozioni… ci date ‘sti temi da fare per il compito in classe di cui non mi frega niente, io ho cose da dire, vaffanculo ai temi!”, ho finito il tema così. La professoressa vice-preside, mi convoca: “Pompa! Cerchi di evitare exploit di questo genere!”. Fatto sta che chiamano il professor Fiore, con il quale avevamo un rapporto personale al di fuori della scuola, che mi dice: “Ma che cazzo combini?!”. C’era il ponte del primo maggio il giorno dopo - e mi fa: “Tu domani vieni a casa mia”. Mi porta a Sacrofano, sulla Flaminia, dove abitava, e proviamo lo spettacolo.
Durante la prima prova lui - non è che mi fece ubriacare, ma mi diede un paio di bicchieri di vino, a quindici anni io non bevevo… Mi mise, nel suo soggiorno, la seconda delle Gymnopédies di Erik Satie, e io dovevo
costruire l’entrata di Tiresia su un ritmo. Questa fu la prima esperienza proprio fisica di teatro: camminare sulla musica di Satie - e mi ricordo che avevo un bastone, ero il cieco, dovevo fare il cieco…
L’anno dopo I Fisici, l’anno dopo ancora Il drago di Evgenij Schwarz - un testo fantastico, abbiamo recitato al teatro Manzoni di Roma, tre repliche a pagamento.
L’anno dopo abbiamo fatto L'anima buona del Sezuan di Brecht, e io facevo il personaggio del primo dio - ci sono tre dei - e mi ricordo un dettaglio, sempre se devo dire come imparo e ricordo: c’era sempre questa camminata dei tre dei che camminavano sincronizzati e ad un certo punto dovevamo girarci tutti e tre insieme, e per farlo, il professore ci fece guardare il film Sogni di Kurosawa, dove a un certo punto ci sono tre personaggi mascherati che camminano in un bosco e fanno: “TUM!” - come accade nel teatro cinese - e noi dovevamo girarci di scatto. Questo è l’altro ricordo tecnico - camminata su Satie e giravolta su Kurosawa.


Teatro come volo
Ho un bellissimo ricordo del teatro, e quando recitavo in collegio ho avuto un’esperienza che ho fatto solo in altri due o tre momenti della mia vita - cioè, se io provo a ricordare quali sono i momenti felici della mia vita, dove stava la felicità, cosa cerco, cosa vorrei rivivere, ho tre o quattro cose in cui ho fatto esperienze simili: un’esperienza di abbandono, di vuoto, di volo, di flusso che non sai quello che stai facendo, ma è tutto così perfetto.
Uno era giocando a calcio, una volta che avevo fatto un goal, calcio e teatro hanno un legame nella mia vita: feci un goal e mi ritrovai dall’altro lato del campo abbracciato all’allenatore, e quello che era successo in quei cinquanta metri io non me lo ricordo…. Un’esperienza di volo, di vuoto e di trasporto simile l’avevo fatta a teatro recitando, mi ricordo che a volte mi capitava di entrare in certe scene e poi mi ritrovavo alla fine della scena ed era successo qualcosa in cui il tempo s’era come infinitamente dilatato e infinitamente contratto, era un’altra dimensione. E poi ovviamente certi baci dati su certe panchine… Queste tre. E il mare, dei momenti al mare. Quindi per me quest’esperienza con la compagnia scolastica è stata veramente molto importante.


FORMAZIONE


Il periodo universitario: Maestri, libri, Odin Teatret
Al Dams poi è esplosa la bomba. Lì iniziai a seguire le lezioni di alcuni professori che mi segnarono. Lì si è cominciato ad aprire qualcosa, ho iniziato a pensare e vedere un teatro che non avevo mai immaginato che esistesse, un teatro aperto a dimensioni esistenziali, politiche, spirituali - proprio attraverso i libri…
La cosa fondamentale però successe nel 2000, quando venne a Roma un gruppo danese che non avevo mai sentito nominare: l’Odin Teatret. Il professor Franco Ruffini fece un corso - l’università di Roma Tre aveva collaborato a organizzare la presenza dell’Odin al Teatro India, assieme al Teatro di Roma che all’epoca era guidato da Mario Martone. Ed io andai da mio padre e gli chiesi duecentomila lire o duecento euro, non ricordo, per andare al botteghino del Teatro India e comprare tutto: c’erano sette/otto spettacoli, dieci dimostrazioni di lavoro, i seminari… Ed io passai questo mese così, la mattina andando a lezione a sentire Ruffini che ci parlava di antropologia teatrale, di Eugenio Barba, (si leggevano i libri La canoa di carta, L’arte
segreta dell’attore, Teatro e box ecc.) e il pomeriggio al Teatro India. In quel momento l’esperienza universitaria di lettura e studio si è saldata completamente con un’esperienza pratica di spettatore.
Lì ho visto anche l’Odin Teatret, che è un mondo che non è il caso di raccontare adesso, perché sarebbe infinito. Vedevo le conferenze, lo spettacolo Mythos - che mi ha completamente stravolto - e poi soprattutto vedevo questo gruppo di attori che aveva occupato il Teatro India tipo villaggio, con i vari casali. Aveva impiantato come una cultura per un mese, come una tribù che arriva e dice: “Noi per un mese abitiamo qua e questo posto funziona con altre regole, altri modi, tradizioni”. Teatro come cultura ambulante, non solo come spettacolo o come operazione estetica, ma proprio il teatro completamente esploso rispetto al solo spettacolo, qualcosa di diverso, di vivo, uno stile di vita…
E lì cominciano a piazzarsi nel cervello alcune frasi di Barba: “Il teatro è la quadratura del cerchio che mi ha permesso di rimanere comunista”, oppure alla conferenza al Teatro Argentina, quando c’era stato un ritardo nell’entrata per una questione con i biglietti, e lui disse che avremmo dovuto iniziare a gridare tutti insieme per protestare per questo ritardo dovuto alla burocrazia - e tutti iniziarono a gridare e lui disse: “Sì, ma bisogna saper disciplinare il proprio urlo”. E ancora, una volta, quando una signora, abbonata al teatro, si lamentò per la scomodità delle panche sulle quali era stata fatta sedere per vedere lo spettacolo, e Barba le rispose: “Strano, perché i contadini del Perù le trovano comodissime!”. Questo per darvi alcuni flash di come Barba in pochi giorni mi fosse entrato nel cervello.
Poi da lì ho scelto di studiare teatro all’università. Dovevo scegliere tra cinema e teatro e ho scelto teatro, ho voluto fare la tesi sul training - cosa apparsa come un lavoro dell’attore su se stesso, che cambia la persona, che la mette in contatto con zone di sé, il corpo-mente... ed è da lì che inizia tutta la storia più di studio e di avvicinamento progressivo all’Odin Teatret, che ho inseguito nei seminari.
Intanto il professor Nicola Savarese era venuto a Roma, e io avevo iniziato a entrare in contatto con tutto un ambiente di letture, di studi, che oggi so che era quello di Teatro e Storia, all’epoca non lo sapevo: Ruffini, Savarese... con dispense di persone che non conoscevo come Mirella Schino, Ferdinando Taviani, Raimondo Guarino… Decisi di fare la tesi su qualcosa che mi serviva praticamente. S’intitolava Tecniche del corpo asiatico nell’allenamento degli attori occidentali, e fu fondamentale, ancora oggi lo penso - fatta con il professor Savarese. Per me fu davvero un’esperienza importante proprio dal punto di vista del far teatro. Ho scoperto tante cose pratiche che ancora oggi mi sono molto utili quotidianamente in sala mentre faccio le prove... i libri sono stati molto importanti per me, rispetto proprio al far teatro.


Eugenio Barba e l’Odin Teatret da vicino
Il professor Savarese mi invitò all’Università del Teatro Eurasiano. Si svolse a Caulonia un seminario organizzato dal Teatro Proskenion, nel quale ho conosciuto Barba in prima persona - non mi ricordo l’anno preciso, 2004 o forse 2005. Poi l’anno dopo l’ISTA (International School of Theatre and Antropology) a Wrocław in Polonia, l’ultima sessione che si è svolta ad oggi. Questi sono stati i primi due incontri diretti con Barba, dove l’ho visto lavorare.
Io avevo già deciso che dovevo fare il regista, avevo provato a mettere insieme delle persone a Roma e avevo uno spazio a Trastevere, ma non riuscivo, non avevo esperienza per guidare delle persone, non sapevo proprio che proporre. Andò male insomma, io stesso ero indeciso. Quindi, finita l’università, chiesi la borsa di studio al Ministero degli Esteri per andare a fare un progetto di ricerca in Danimarca presso l’Università di Århus, che aveva aperto il CTLS (Center of Theatre and Laboratory Studies) in collaborazione con l’Odin. Vinsi la borsa di studio per sei mesi e andai; i primi soldi della mia vita li ho presi lì, andai per studiare nell’archivio, leggere libri…
Nella primavera del 2006 seguo tutto il processo dello spettacolo Don Giovanni; lì è dove credo di aver imparato tantissimo. Vedere Eugenio per la prima volta lavorare su uno spettacolo, sul montaggio, fu un processo lunghissimo che non vi sto qui a raccontare, due mesi in sala tutto il giorno con gli attori e con Barba. Io davo una mano con le cose pratiche, pulivo, riordinavo... all’Odin funziona che tu ti devi inventare il modo di essere utile, non ti viene detto che fare, quasi mai; devi essere tu stesso ad individuare gli spazi in cui il tuo interesse coincide con quello che serve al contesto.
Lavorare con Barba non è una cosa che si può spiegare in due minuti. Eugenio è una figura. Intanto è estremamente generoso, e enigmatico - non sempre capisci, ma a volte questa enigmaticità ti sembra percorsa da una coerenza segreta, mentre altre volte ti sembra semplicemente che è matto, perché un giorno ti dice una cosa e il giorno dopo un’altra... È estremamente vicino a te e allo stesso tempo estremamente distante... ti insegna nel senso che insegnare significa segnare dentro, non significa necessariamente che io vengo là e ti dico... significa che io faccio qualcosa che ti lascia un segno dentro, quello è insegnare e lui è un insegnante in continuazione… Lo fa attraverso la situazione pratica di lavoro: ti permette di stare accampato accanto a lui e succhiare e bere tutto quello che tu vuoi. A volte fa qualcosa che ti può aiutare di più, a volte si diverte, fa quello che gli serve per il processo, ma fondamentalmente devi esser tu. Lui a me ha regalato, mi ha offerto le condizioni per imparare, per crescere, e continua ad offrirmele…


Prime regie: tra vita e teatro
Nel frattempo ho fatto il mio primo spettacolo da regista. Dopo essere stato in sala con Barba due mesi mi sentivo forte. Ho messo insieme due attori e ho fatto uno spettacolo che si chiamava Io guardo il mare... tanto per tornare alle origini, per dirvi quanto le realtà lavorino ad un livello profondo e quanto in realtà è anche un modo di restar legato ad un’epoca preziosa della vita. Io guardo il mare era il titolo di una poesia di mio padre: “Io guardo il mare, rannicchiato da qui, dall’alto…”. Una poesia che mio padre aveva scritto a vent'anni, che raccontava il suo rapporto con il mare e la sua terra.
Facemmo lo spettacolo a Roma con Antas Teatro, una compagnia con due attori, un attore sardo e uno romano, Stefano Farris e Mario Umberto Carosi, entrambi amici miei. Il teatro lo cominci a fare con gli amici. Non è che ho chiamato degli attori, ma ho chiesto a degli amici se avevano voglia di fare uno spettacolo che parlava in maniera poetica della mia relazione con mio padre o con una specie di alter ego paterno. Quella fu la mia prima prova da regista e fu importantissima dal punto di vista personale, nel senso che mi accorsi che per fare uno spettacolo per me era importante confrontarsi con qualcosa di molto personale, e ancora oggi è così, dò il meglio se ho echi autobiografici, sto sempre a raccontare qualcosa di me…
Tutti gli spettacoli che ho fatto sono molto legati a mie situazioni; poi ho imparato che è importante nascondere questo molto sotto e raccontare storie che riguardano gli spettatori, se possibile.
Continuavo ad andare all’Odin Teatret, e poi è arrivato un momento di svolta in cui Eugenio Barba mi ha proposto di lavorare come assistente.
Ho fatto il mio secondo spettacolo, o meglio studio, che si chiamava Don Giovanni…scherzo per servo e padrone. Poi Dodici parole buone e infine questo spettacolo, La clinica degli accecati, che abbiamo prodotto e creato integralmente all’Odin Teatret.


RELAZIONI


Dono del regista
Credo che sia fondamentale essere sinceri, tu all’attore come regista devi dare ispirazione, gli devi far vedere che hai le idee per fare lo spettacolo. Gli attori devono percepire che si possono affidare a te, che tu lo spettacolo alla fine lo fai. Gli offro questo, gli offro tutto il rigore possibile. Non gli offro denaro per adesso, è grave, dovrei, ma non ce l’ho - non sono capace, non ho trovato i mezzi per pagare gli attori come vorrei, gli offro solo dei rimborsi per adesso. Gli offro la mia sincerità, me stesso e tutto il mio lavoro, questo posso offrire. A loro c’è una cosa fondamentale che chiedo: di aver pazienza e di accettare di navigare nella nebbia per un po’, senza sapere dove si va, fiduciosi che se uno naviga fino in fondo alla nebbia poi trova un continente nuovo. In questo periodo di navigazione nella nebbia loro devono avere una fiducia totale in me, della quale io debbo essere all’altezza…
Quando propongo a un attore di lavorare insieme, glielo propongo sulla base dell'intuito, se è una persona che mi sembra affine, che ha doti di umiltà. A parte le doti professionali, che se ci sono meglio, altrimenti si coltivano durante il lavoro, è importante l’umiltà e l’autenticità umana. Non riesco a lavorare senza, per questo non faccio il regista freelance, penso che farei una fatica enorme a lavorare con gente che non ho scelto, che non mi piace, che mi pensa come un collega e non come una persona con cui scambiar qualcosa. Quindi questo chiedo: di esser se stessi, di non far finta e di lavorare semplicemente.
Dal punto di vista personale è così, mentre dal punto di vista creativo a seconda dello spettacolo l’approccio cambia, nel senso che dipende dalle idee che hai... Io sono fermamente convinto che tu come regista puoi pensare quello che ti pare, puoi avere tutte le teorie che vuoi, ma alla fine, almeno per me, quello che decide se fai uno spettacolo è l’idea che ti viene, è la visione. L’immagine che ti guida è quello che decide.
La prima cosa che faccio è quella di prendere l’attore e di parlargli dell’idea, della necessità… perché l’idea è una necessità, una visione, e gli dico: “Ho questa immagine, poi questa e questa, e ho la sensazione che lavorando insieme su queste immagini può venir fuori qualcosa di bello…”. Gliele racconto nel modo più semplice possibile, nel modo più personale. Poi gli dico le condizioni: un mese, una sala e i soldi per pagarci i viaggi, oppure i soldi per i viaggi e per il vitto, oppure non abbiamo niente, tutto a spese nostre… Gli prospetto fin dall’inizio la situazione materiale. È fondamentale che sia chiarissima la condizione materiale in cui si lavora, non ci devono essere equivoci, bisogna sempre stare sulla stessa barca.
È fondamentale per me che gli attori non siano usati, ma siano in qualche modo serviti - che significa anche esigere qualcosa da loro, esigere tanto, però è fondamentale che non siano delle “cose”, ma persone che tu non prendi in giro, non usi, non strumentalizzi.


Dono degli attori
Quando lavoriamo bene, gli attori mi danno precisione, che sembra un fatto tecnico, ma in realtà è un dono profondo - e poi rispetto, sono leali verso quello che facciamo, se noi facciamo una cosa loro la rispettano, cercano di curarla, e mi sono accanto nella ricerca di qualcosa che non so, che non è da poco… perché io da solo mi perdo, voglio perdermi - ma quando ti perdi, però chiedi anche ad altre persone di venirti dietro…
Un giorno durante le prove abbiamo avuto un dialogo e uno degli attori mi ha detto: “Si, va bene, però", era un momento di stanchezza, "tu stai cercando la tua stella, questo è un percorso nella giungla dove tu cerchi la tua
stella; a volte però noi facciamo i portantini nella giungla…”. Era vero, e se alla fine del viaggio tu non trovi Angkor Wat nella giungla cambogiana o non trovi in fondo al percorso qualcosa, se non li porti da qualche parte, hanno il diritto di linciarti e di mangiarti come dei cannibali, perché tu non puoi chiedere alla gente di viaggiare nella giungla se poi non gli fai trovare qualche tipo di tesoro. E io ho una paura fottuta durante il lavoro, che devo nascondere come regista, devo far finta che so dov’è il tesoro… e io non lo so dov’è il tesoro... però so che se lo cerco con convinzione lo trovo, chi l’ha detto che l’abito non fa il monaco? L’abito fa il monaco purché portato sufficientemente a lungo, utilizzando le parole di Franco Ruffini. Se tu credi che c’è il tesoro, il tesoro si materializza.
Così, gli attori mi danno questo tipo di fiducia, accettano di viaggiare nella giungla. E poi, evidentemente, c'è tutto quello che mettono loro: idee, apporto creativo, fantasia, lavoro, lavoro, lavoro... Per non dire la cosa più evidente: queste persone lavorano gratis, hanno lavorato gratis… Ora, sembra che non dobbiamo parlare di soldi, ma questa è gente di trentacinque, quarant'anni che lavora gratis per me, per fare uno spettacolo con me. È una cosa dell’altro mondo, è gente che se ne va per due, tre mesi da casa sua, lascia famiglia, lavoro e tutto ciò che ha per lavorare con me gratis - anzi, a pagamento, perché si sarebbero dovuti pagare le spese dei viaggi. Hanno accettato a queste condizioni.
Per una cosa del genere, intanto mi sento responsabile e penso di dovergli dare qualcosa in cambio, che se non riesco a fare in modo che siano soldi deve essere un volo artistico; e poi ho una gratitudine immensa per una cosa del genere, che cerco di ripagare con la sincerità.
Poi nello specifico del lavoro creativo mettono tantissime altre cose, ma il patto interiore tra me e gli attori è basato su questo tipo di fiducia, sul tipo di viaggio che facciamo. E non lo puoi fare con tutti gli attori - spesso gli attori lavorano con il freno a mano tirato, gli attori del teatro “normale” sono dei mercenari, lavorano con lo spirito di un dipendente ministeriale: "Il progetto è il tuo, tu mi paghi, io faccio l’orario di lavoro, dimmi che devo fare, non mi chiedere di prendere iniziativa, di fare una proposta..."
Tu mi dici e io faccio. Il problema è questo, che sotto la parola teatro mettiamo insieme cose che non hanno a che fare l’una con l’altra. Non basta il fatto che ad un certo punto c’è qualcuno che si siede e guarda un altro che parla o fa qualcosa, per chiamare due cose teatro. Stiamo parlando di contesti tra cui c’è un abisso ideologico ed esistenziale. Pure in un tribunale c’è uno seduto che guarda uno che parla in piedi, ma non è teatro.


Il cuore del teatro
Il teatro per me è raccontare una storia ad uno spettatore, detto molto banalmente… È chiaro che nel raccontare questa storia ci sono tantissimi fattori. Non voglio diventare retorico, ma per me fare teatro è questa spiaggia di Ostia, il giardino di una casa bianca dove sono nato che sta a venti km da qua, è un mondo di libertà, dinamicità, di persone che collaborano, un mondo di diritti, di gioco, di gratuità, e soprattutto è provare a guardare noi stessi e chi abbiamo intorno con un occhio un po’ diverso da quello che usiamo nel quotidiano…
Il teatro è il posto che io ho trovato per coltivare parti di me stesso che nella vita quotidiana non riesco a coltivare perché non c’è lo spazio sociale, perché le relazioni funzionano in un modo che probabilmente è funzionale al quotidiano, ma che lasciano - Eugenio Barba dice - in esilio una parte di me. Quella parte di me che vive in esilio, quella parte di noi… come frequentare quella nostra parte lì?
Possiamo vivere tranquillamente accettando che una parte di noi venga rimossa; poi ad alcune persone, invece, per particolari vicende biografiche, questa parte che vive in esilio gli torna su, e qualcosa ci devi fare con quella parte lì, sennò t’ammazza…
Io quella parte lì me la gioco con il teatro, ci faccio teatro con quella parte lì…

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