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 Intervista a Luca Vonella


L'intervista nasce dall'incontro con Luca Vonella in occasione de La pista cifrata - attore, musica, training, laboratorio condotto dal gruppo del Teatro a Canone presso l'Aula Columbus, Università Roma Tre, dal 12 al 22 maggio 2014. Abbiamo seguito il lavoro di Vonella, visto il suo spettacolo, e parlato insieme in una pausa del lavoro. Luca ha raccontato di come, da attore rimasto solo, ha voluto rifondare un gruppo teatrale, e di come sia cambiato il suo istinto di sopravvivenza, forse persino il modo di ragionare, in relazione alle esigenze della nuova formazione. Ha parlato dei suoi inizi teatrali, del percorso del training, della formazione del vecchio e poi del nuovo Teatro a Canone, e ancora degli attuali progetti e della volontà di creare un ambiente.

a cura di Ilaria Fantozzi, Manuel D'Aleo, Sara Marzocchi

 


I miei inizi sono proprio qui dentro, all'Aula Columbus. La pratica del teatro è iniziata qui.

 

Io sono entrato al DAMS perché ero interessato al cinema, non sapevo niente di teatro. E al DAMS ho incontrato le lezioni del prof. Franco Ruffini, che mi hanno aperto un nuovo universo. Così sono andato da lui per chiedergli dov’è che si poteva fare praticamente teatro e lui mi ha consigliato alcuni laboratori. Son finito in quello di Simone Capula: si intitolava Ricominciare da Grotowski ed era tutto un laboratorio su Bob Dylan, che era il pallino di Simone.
Durante quel laboratorio mi ha detto: «Guarda, noi stiamo ideando un progetto che si chiama Scuola Ambulante di Teatro: si basa sul viaggio, perché non abbiamo una sede - staremo quindici giorni al mese in diversi contesti, università, circoli culturali, teatri, e si farà vita comunitaria». Queste sono le due cose che mi sono rimaste impresse per cui ho detto di sì. E da lì per quattro anni abbiamo vissuto di questi contesti universitari.
Simone dirigeva i laboratori e noi lo affiancavamo; nel pomeriggio elaboravamo il nostro training e preparavamo degli spettacoli. Così abbiamo incontrato un substrato di realtà teatrali non ufficiali: non i grandi teatri stabili, ma piuttosto circoli culturali, piccoli teatri, piccoli gruppi. Una parte importante di questa pedagogia è stata poi l’esperienza nei centri sociali, perlopiù romani.
Questa prima formazione ha compreso anche lo studio delle danze indiane, perché Simone ci ha mandati immediatamente a studiare al Teatro Tascabile di Bergamo, e da lì io pratico il Kathakali.


Come nasce il Teatro a Canone?
Nel 2008 la Scuola Ambulante si è sciolta. A Chivasso, una cittadina vicino a dove è nato Simone, la sua associazione ha vinto un bando per cui assegnavano delle casette di legno risultanti da un cantiere dell’alta velocità. A quel punto Simone ha detto: «Beh, chi vuole passare al professionismo può venire qua». Siamo saliti in due attori, io e Lorenza (ndr. Ludovico), e così nel 2008 è nato il Teatro a Canone. E' stato fondato ufficialmente in Trentino, ma ha sede a Chivasso. Nonostante nel 2011 Simone abbia deciso di smettere, dopo tre anni di lavoro comune, io ho deciso di portarlo avanti e di rifondare un gruppo. E così, dopo un anno e mezzo da solo, dal quale nasce lo spettacolo Orazio – Vite nude, ho incominciato ad aggregare delle nuove persone.


Cosa puoi dirci del tuo training e di come è cambiato nel tempo?

Penso che sia molto importante andare a fondo su poche cose. Io ho scelto il Kathakali; ci sono tante altre cose belle che potevo e che potrei fare, però ho scelto quella. Quindi c'è il training che ho iniziato con Simone e che sto cercando di portare avanti e di elaborare, e poi il Kathakali. Con Simone facevamo un lavoro sul "recitar cantando", come lui diceva, cioè sul dire il testo sulla musica, ma non c’era, o non gli interessava, un aspetto sulla voce. Quando mi sono ritrovato da solo ho pensato che bisognasse giocare al rialzo e portare alle estreme conseguenze quello che si era fatto fino a quel momento. Riprendere da quello, ma non cristallizzarsi.

Ho cominciato a fare tutto un lavoro sulle sequenze che avevo: sequenze di otto salti, otto lanci, otto cadute, poi ci sono otto movimenti singoli del corpo... alcune sequenze le faccio dal 2008 e mi incuriosisce tanto sapere cosa diventano, col passare degli anni. E tutto questo ho detto, deve mescolarsi, no? Un lancio, una caduta, sempre di più, sempre di più, e tanto che si confondono. Che cosa diventano? Non lo so… qualcosa.

Poi ho incontrato un’attrice che aveva un bagaglio interessante di esercizi sulla voce che aveva fatto al Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards. Era un lavoro veramente basilare e quindi mi è sembrato interessante cominciare a innestarlo nel training. E adesso, già da un po' di tempo, sto pensando che forse il futuro sarà anche vedere cosa succede se tutte queste azioni fisiche vengono fatte senza musica.

E' un cambiamento continuo, il training - però senza abbandonare delle radici, senza muoverti in superficialità. Questo è importante: cercare di mettere in discussione, però partendo da dei punti fermi. In qualche modo fare sempre le stesse cose ma sempre in maniera diversa. Insistere su certi principi e metterli in discussione, però avendo una storia dietro.

Il motivo per cui ho portato avanti il Teatro a Canone era che volevo avere una storia alle spalle, nella mia vita sentivo di non averne una. Adesso mi sento di far parte di una storia e di continuarla, in qualche modo di proseguire una strada - che è poi anche quella del training.


Cosa hai fatto quando sei rimasto solo?
Quando mi sono trovato solo è stato traumatico. Ho cominciato a vedere nella sede che avevo una base, una casa, una sala di lavoro che frequentavo quasi esclusivamente. Nei primi mesi dormivo nel teatro perché non avevo altra possibilità. E lì però mantenevo una struttura della giornata propria di quella dei gruppi: 9-13, 13-14.30 pausa pranzo e dopo lavoro sullo spettacolo. Tanto che Mirella Schino ha coniato questa cosa interessantissima dell’unico teatro di gruppo formato da una persona sola. Rasenta la follia…
Sapevo che se avessi incominciato a fare l’artista che si sveglia tardi e poi fa qualcosa solo se ha un’idea sarei morto professionalmente. Mi avrebbe portato alla depressione sotto tutti i punti di vista, proprio alla depressione nel lavoro; quindi dovevo mantenere la disciplina. Avevo molto timore di quella situazione.
E lo spettacolo l’ho fatto, Orazio, perché mi impone il training, e nel training capisci anche cosa ti interessa nel teatro, e ti confronti con i tuoi limiti e con le tue motivazioni... perché il training è una battaglia quotidiana con la noia e con la fatica, perché le cose crescono lentamente.
Ho pensato: questo spettacolo mi deve dare un po’ di soldini per sopravvivere, mi deve costringere a un’autodisciplina e mi deve portare a un rapporto con lo spettatore. Se poi incomincio a girare nelle associazioni o nei circoli per avere una dimensione "piccola" del teatro, posso incontrare delle persone, e magari qualcuno sale sul carro con me...

Come sono arrivate Anna Alessandra e Alice, le tre ragazze che attualmente compongono il gruppo?

Alice la conoscevo dai vari seminari che lei aveva fatto con noi del Teatro a Canone e in realtà l’ho coinvolta subito in un progetto che facevo a Bergamo in un liceo, un progetto per cui collaboro con il TTB.
Poi, dopo un anno, ho cominciato a far entrare veramente chiunque in sala, era veramente spalancata. Chiunque voleva fare training, con me, di sera, d’inverno, col freddo, veniva. Dicevo: «Portate qualcosa da mangiare, poi vediamo dei film…». A tempo perso, perché veramente, doveva cominciare a circolare gente, non potevo rimanere chiuso da solo per più di un anno e mezzo. Non si può far teatro da soli in una sala...
E una volta un’amica mi ha detto che stavano preparando uno spettacolo su Fassbinder, a Moncalieri: «Vuoi venire a vederlo?». Di solito non vado tanto a teatro, però quella sera mi ha incuriosito qualcosa, non so bene perché. Quest'amica mi parlava di una ragazza attrice che stava facendo la regia di questo spettacolo. Era Anna. Ho visto in lei qualcosa: umiltà, disponibilità, non lo so. E poi c’era anche Alessandra.
Per prima ho coinvolto Anna. Forse anche perché aveva la testa un po’ da regista ed era proprio utile per i progetti che stavo facendo. Mi avevano detto che lei voleva fare l’attrice, quindi l’ho invitata in queste serate strane in cui facevamo training. L’ho guardata e ho pensato... magari fosse nel Teatro a Canone, no? Perché la vedevo tutta energica, veramente molto decisa, forte. E quindi dopo un po’ l’ho coinvolta nel progetto di Bergamo, pagandole solo i viaggi. E lei è venuta, perché voleva fare quest’esperienza - e poi è stata fondamentale.
In quel momento non potevo prendere un’altra persona - già era molto che riuscissi a pagare i biglietti del treno per Anna. Però ogni tanto Alessandra si affacciava. Perché Anna e Alessandra viaggiano legate, e quindi vedevi che Anna si portava dietro Alessandra. E poverina lei ha persistito, veniva, veniva e dopo un po’ le cose sono andate bene e ho potuto inserirla in un progetto più grande, su La Tempesta.
In tutto questo sto tralasciando Laura: una signora adulta, una spettatrice abituée dei nostri spettacoli. Le piaceva molto l’ambiente che c’era dopo i nostri spettacoli... e nel momento in cui sono rimasto solo – lei fa un altro lavoro, lavora nei servizi sociali – mi ha detto: «Se tu vai avanti nel teatro io ti aiuto. In qualsiasi cosa, come volontaria». Lei è stata cruciale, mi ha aiutato con l’organizzazione e nella risoluzione di tanti problemi pratici. E adesso ad esempio c’è un progetto che facciamo con non professioniste, con donne adulte, ed è entrata: è la vice-presidente dell’associazione, fa parte del Teatro a Canone e partecipa però anche ai laboratori, vuole sperimentarsi praticamente nel teatro.
Ci son tre quattro persone che sono state determinanti per avere la forza di andare avanti. Ci sono dei momenti in cui il fatto che ci sia qualcuno che ti dia fiducia è importante.

 

Come è avvenuto invece l'incontro con Pierangelo Pompa per lo spettacolo La Clinica degli Accecati?
L’incontro con Pierangelo Pompa è stato tanto prezioso quanto problematico. Mi ha messo in crisi, in una crisi enorme. Perché lui me l’ha proposto quando ero ancora solo, grossomodo, quando tante cose non erano definite, ma si è realizzato quando stavo formando il gruppo, con tutti gli equilibri complicati che devi preservare con le persone, e con le varie realtà con cui collabori sul territorio.
E' stata una situazione schizofrenica, il gestire le due cose assieme, perché i piedi in due scarpe, è veramente complicato mantenerli. Però siamo riusciti, nel senso che io sono andato da Pierangelo con l’idea di imparare da chi ne sa più di me, in un contesto che mi poteva dare molto, e nel frattempo Anna Alessandra Laura e Alice hanno tenuto in piedi le cose a Chivasso. Però in un momento nascituro, quindi era molto delicato.


E il progetto de La Tempesta di cui ci parlavi?
Lì abbiamo vinto un bando, il primo bando che ho scritto in vita mia e abbiamo vinto un bel po’ di soldi, sempre in quel periodo di solitudine. Era un progetto che ci permetteva di lavorare nelle scuole e quindi di stabilire delle relazioni sul territorio. Mi interessava e quindi ho pensato di coinvolgere delle persone su cui investire per fare un gruppo. L'idea era che il progetto divenisse anche una pedagogia, come lo era stata per me la Scuola Ambulante, e che le relazioni sul territorio ne fossero come delle tappe.

E poi ovviamente c'era lo spettacolo. E lì era necessario per me fare la regia. Abbiamo lavorato un anno e adesso è quasi finito. Ci sono ancora dei piccoli problemi da risolvere, però è a buon punto e già lo stiamo portando nelle scuole in forma di prova aperta.
E’ basato su La Tempesta di Shakespeare. C’era questa riscrittura di Aimé Césaire, un intellettuale nero anticolonialista - ero in Val Susa per manifestazioni e un teatrante di Bologna mi ha fatto leggere questo testo in cui c’è questo dibattito fra la violenza e la non-violenza, che mi interessava. Lo trovavo molto, molto pregnante, no?
Ma il testo di Césaire fa riferimento al razzismo del periodo apartheid, mentre oggi c’è un problema diverso, e quindi di fatto è diventato uno spettacolo sulle multinazionali.
Perché La Tempesta parla del colonialismo, di questi nobili italiani che finiscono su un’isola nord africana, dove c’è un altro di loro che governa quest’isola e che sfrutta Calibano, che è un nero. Ho ragionato - cosa vuol dire il colonialismo oggi? Anche il mio stesso passato politico mi riportava alla questione del no-global. E' il riferimento politico della mia generazione, e il bagaglio culturale della sinistra dei recenti anni Novanta. Mi interessava da parecchio tempo parlare di problemi legati alla questione della globalizzazione.
La Tempesta può facilmente far pensare al problema dei morti sui canotti nel mare di Lampedusa, però non è così. La Tempesta parla di nobili che naufragano. Un altro nostro riferimento è stato quindi un quadro di Géricault che si chiama La zattera della Medusa.
Così questo spettacolo, secondo me, parla di quello che c’è prima degli stranieri che vengono qua. Della domanda che non si fanno tante persone e per cui ho litigato spesso con mio padre, no? Ma ci si chiede perché queste persone vengono qua? Non starebbero forse meglio nel loro Paese? Forse l’Africa è il continente più ricco al mondo, anziché il più povero, ma è depredato. E in Senegal l’80% dei diamanti vanno agli occidentali e il 20% agli africani.

Allora per me questo spettacolo parla di quello che c’è prima del problema. La questione della legge Turco-Napolitano è successiva, il problema è alla radice: bisogna smettere di sfruttare questo continente. Si tratta di poteri talmente forti che già solo dirlo sembra assurdo. Però questo era ciò che volevo dire, e quindi di fatto è uno spettacolo finanziato dai soldi dell’Europa ma un po’ contrario alle sue abitudini finanziarie...

 

E senti, a proposito di politica, un'ultima domanda - come sono i rapporti con l'amministrazione e le realtà locali di Chivasso?
A Chivasso ho capito che dovevamo aprirci molto più di quanto non avessimo fatto con Simone, ad esempio nelle scuole e nelle associazioni. Adesso collaboriamo con un’associazione che si occupa di stranieri vittime di discriminazione e donne vittime di violenza. E' un modo per noi per intercettare delle persone che in qualche modo vogliono raccontare delle storie, quindi i laboratori che facciamo insistono su quello.
E poi ho avuto quest’idea, e sono andato dall’assessorato alle politiche sociali, anche perché avevo tutto un progetto che potevo presentare sulla psichiatria. Questa persona stravede per il nostro lavoro - ho cominciato a dialogare con lei come non avevo mai dialogato con un’istituzione. Ha accolto i nostri progetti e ci ha permesso di farli senza strumentalizzarli politicamente, e quindi di fatto il rapporto con le istituzioni chivassesi adesso è buono.
Penso che come teatrante devo parlare col mio lavoro. E' chiaro che se ti metti a urlare come disapprovi il potere non ti fanno fare niente. Un teatro se non dialoga con le istituzioni è tagliato fuori, quindi deve saperlo fare senza calare le braghe, in qualche modo giocando al gatto e al topo; deve sapersi muovere. E’ complicata. Però questo problema c’è, è indiscutibile, il compromesso c’è. Colin Ward, un pedagogo anarchico diceva: «Ci sono compromessi buoni e compromessi cattivi». I compromessi ci sono come metti piede fuori casa. Noi dobbiamo parlare alla gente.
Quello che sto cercando di fare a Chivasso, in questa piccola sede, è creare un ambiente. Quindi delle persone che vengono a vedere i tuoi spettacoli, che si affezionano al tuo lavoro, che vengono a darti una mano, che se fai un incontro ci sono. Sto lavorando molto su questo. Creare un ambiente, una piccola tribù. Le relazioni sono la cosa importante del teatro. Uno spazio. Delle relazioni. Devi trovare lo spazio, sicuramente, e avere delle relazioni, perché attraverso queste relazioni continuative, l’affiatamento, puoi creare un gruppo, puoi creare un pubblico. E penso che il teatro non lo si fa nei posti belli. Spesso nasce proprio nei posti dove manca qualcosa, e tu lavori, ti illudi di far crescere i ciuffetti d’erba nelle crepe di cemento. Il teatro è proprio così, ciuffetti d’erba che tu fai crescere nell’intercapedine del cemento, due margheritine così... e lì ne sento il bisogno...

 

 

 

          Per approfondimenti sull'esperienza del Teatro a Canone anteriore all'attuale formazione, si rimanda a

Alice Laspina, Il Teatro politico tra ideologia e utopia - L'esperienza di Simone Capula (tesi di laurea triennale, Università Cattolica del Sacro Cuore, corso di laurea in Scienze e Tecnologie delle Arti e dello Spettacolo). Si segnalano inoltre due contributi sulla Scuola Ambulante di Teatro: Noemi Tiberio, La Scuola Ambulante di Teatro: pedagogia teatrale e Natascia Di Baldi, La Scuola Ambulante di Simone Capula, in «Inscena», 4, Roma, Gangemi, 2005. Sullo scioglimento del nucleo originario del Teatro a Canone, segnaliamo i due punti di vista: Simone Capula, Lettera aperta e presuntuosa sulla chiusura del nostro teatro: Perché cala il sipario sul Teatro a Canone, in «ateatro», n. 135, 15 aprile 2011 e Luca Vonella, Da un teatro che chiude, in «Teatro e Storia», nuova serie 3, vol. 32, Roma, Bulzoni, 2011.

 

 

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